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MISTERI E RELIQUIE DELLA PASSIONE


6° Convegno Internazionale di Studi sulla
Cultura Popolare Religiosa

presso il Monastero Benedettino Cassinese "delle Vergini"


sul tema

CON MARIA REGINA DEI MARTIRI AMORE ALLA CHIESA


Bitonto, 3 ottobre 2011


INTERVENTO DEL
DOTT. FRANCESCO STANZIONE


Prima di esporre il mio intervento a questo Convegno, mi è gradito porgere un saluto a tutte le Autorità Religiose e Civili presenti, a tutti gli amici bitontini che, con me, condividono la comune passione per i Riti della Settimana Santa, e ai rappresentanti della Real Maestranza di Caltanissetta della quale mi onoro di far parte come membro onorario.
Ovviamente non solo saluto, ma ringrazio, per l’invito a relazionare in questo Convegno, Mons. Giovanni Lanzafame, i componenti tutti della Associazione “Passionem Tradere” e il carissimo e fraterno amico Andrea Lovascio, che mi ha dato la possibilità di fare tante amicizie negli ambienti confraternali di Bitonto.
Parlerò quindi di “Misteri e Reliquie della Passione”, coerentemente con il tema del convegno, “Con Maria Regina dei Martiri”, riferendomi a Gesù Cristo, suo Figlio, che è non solo il Martire per eccellenza, ma anche il primo della religione cattolica, ancor prima di S. Stefano.

A Molfetta, annualmente, nella notte tra il Giovedì e il Venerdì Santo, si ripete un rito che, visto con gli occhi della fede e l’animo predisposto alla poesia, induce chi vi assiste a rivivere le stesse emozioni e gli stessi sentimenti che proverebbe se, attraverso una immaginaria “macchina del tempo”, gli fosse possibile essere presente fisicamente a quei terribili momenti nei quali si è consumata 2.000 anni fa la grande tragedia terrena della Passione e Morte di Gesù Cristo.
Si tratta della processione dei Misteri (1) che alle ore 3,30 in punto del Venerdì Santo esce dalla chiesa di S. Stefano, a cura della omonima, antica e venerabilissima Arciconfraternita.
Non è comunque della processione che sto per parlarvi, ma dei simulacri che rispettivamente rappresentano i cinque Misteri Dolorosi che i molfettesi così chiamano: Cristo all’orto, Cristo alla colonna, Cristo alla canna, il Calvario e Cristo Morto.
Sono cinque statue (2) (3) di fattura lignea di presunta scuola veneziana, attribuite ad un non meglio identificato scultore, al quale la leggenda attribuisce il nome di Giacomo Fielle. Solo del Cristo all’orto, rifatto nel 1858 perchè l’ originario era ormai deteriorato irreparabilmente, si ha la certezza che sia opera del napoletano Gaetano Larocca.
In effetti, se si osservano con la lente dello storico dell’arte, tutto depone alla attribuzione alla scuola napoletana anche delle altre quattro statue, ma personalmente preferisco sognare che, come vuole la leggenda, esse siano approdate a Molfetta da Venezia.
In quell’ipotetico 1525, un nobile molfettese della famiglia Lepore aveva un figlio di nome Diomede che era stato contagiato da una epidemia di scorbuto. Avendo saputo che a Venezia c’era un medico che aveva fama di essere specializzato nella cura di questa malattia, con una nave raggiunse quella città e, non si sa bene per quale caso fortuito, capitò nella bottega di un tale scultore Giacomo Fielle, rimanendo particolarmente colpito da cinque statue raffiguranti i Misteri Dolorosi, finemente scolpite nel legno.
Il Lepore decise immediatamente di acquistarle, affascinato dalla loro eccezionale bellezza e particolarmente dal taglio e dalla espressione dei volti dei cinque Cristi che sembravano quasi vivi e palpitanti, nonché dalla straordinaria avvenenza dei colori, e non soltanto nelle parti nude del corpo che sembravano ambrate, ma anche nelle vesti, il cui rosso sangue l’artista aveva saputo , armoniosamente e con raffinato buon gusto, combinare in giuste proporzioni con riflessi dorati.
In verità quelle statue erano già state commissionate da una confraternita austriaca, ma il Lepore, avendo avuto immediatamente la percezione che quei cinque Misteri, più che il medico, avrebbero portato alla guarigione del figlio, si convinse che quasi per volere divino quelle sacre immagini non avrebbero potuto spettare ad altri se non a lui. I Misteri furono quindi trasportati con una nave fino a Molfetta dove il Lepore, appena sbarcato, apprese che il figlio Diomede era intanto guarito completamente, attribuendo tale guarigione alla fiducia che aveva riposto nell’ausilio del Padre Eterno, acquistando quei Misteri.
Donò quindi con grande gioia all’Arciconfraternita di S. Stefano della quale era confratello quelle statue che, da allora fino ad oggi, sono sempre state custodite nella omonima chiesetta padronale che si trova, tra l’altro, a non più di cento metri da dove sono presumibilmente sbarcate in quel lontano 1525.

Mi fermo qui, per quanto riguarda i cinque Misteri di Molfetta, e passo alle “Reliquie della Passione.
(4) Esse rappresentano per la scienza un vero e proprio campo minato in quanto, a distanza di ormai 2.000 anni dalla Passione, Morte e Resurrezione di Nostro Signore Gesù Cristo, appare molto arduo avanzare ipotesi di autenticità a carico di quanto di visibile e tangibile è rimasto di quei momenti.
Cosa sono le reliquie? Il termine deriva dal verbo latino “relinquo” (resto, rimango) ed indica delle “cose” (vesti, oggetti, ma anche le ossa, il corpo nel caso dei Santi) che nella loro muta consistenza rimandano a Cristo e ai Santi, testimoniano il passato e mettono in effettiva comunione con i Santi, morti al mondo ma vivi nel Signore.
Per dono di Dio, le reliquie hanno operato e operano ancora oggi miracoli per i fedeli, ed è in virtù di ciò, e relativamente al solo aspetto religioso, che ne parlerò; da credente quindi, non potendone parlare in termini scientifici perché non titolato a farlo, in quanto non sono né uno studioso, nè tanto meno un archeologo).
(5) Quando però si parla di “Reliquie della Passione” non si intendono mute testimonianze archeologiche, che possono essere lette solo dallo studioso, ma oggetti che richiamano in modo diretto la Passione di Nostro Signore ed hanno attraversato tutta la storia della fede cristiana, divenendo oggetto di devozione da parte del popolo cristiano.
Esistono dunque le “Reliquie della Passione”? Si possono vedere? Quale valore hanno?
C’è da tenere presente una distinzione: tutte queste reliquie hanno goduto e godono di grande considerazione da parte del popolo cristiano, e sono state, e sono, oggetto di grande venerazione.
(6) Secondo gli studiosi non tutte le reliquie godono dello stesso grado di attendibilità storica. Alcune di esse sono diventate, nell’ultimo secolo e mezzo, oggetto anche di interessanti indagini scientifiche, che hanno svelato orizzonti inaspettati. Ancora oggi sono al centro di dibattiti molto serrati da parte degli specialisti, ma come già detto, questo argomento lo tratteremo dal punto di vista del credente e non del ricercatore.

Ad ogni buon conto possiamo dire che le reliquie più conosciute, studiate e, in un certo senso più certe, sono:
- il Santo Sepolcro (a Gerusalemme);
- la Sacra Sindone (a Torino);
- il “Titulus Crucis”, cioè il cartello della croce (a Roma, in Santa Croce in Gerusalemme);
- il Volto Santo (a Manoppello);
- il Sudario (ad Oviedo);
- la Tunica (ad Argenteuil).
(7) La tradizione poi ci consegna altre reliquie piuttosto misteriose e meno “sicure”, anche perché meno studiate:
- la Colonna della flagellazione (Roma, Santa Prassede);
- la Corona di Spine e varie spine della corona stessa (a Parigi nella Sainte Chapelle, a Vicenza, ad Andria, a Giffoni …);
- la Santa Lancia (però se ne conoscono almeno tre … a Roma in Vaticano, a Norimberga e a Smirne);
- i Santi Chiodi (a Milano, a Monza nella Corona Ferrea e a Roma);
- i frammenti della Croce.

(8) Non si può proseguire nella dissertazione, senza però fare riferimento a colei che si è adoperata affinchè, dalla Terra Santa, queste reliquie fossero portate (io direi distribuite) in quello che era allora il mondo cristiano; parlo di Sant’Elena.
Sant’Elena, madre dell’Imperatore Costantino, convertitasi al cristianesimo, nell’anno 326 (ovviamente dopo Cristo) intraprese un viaggio in Palestina, restituendo i Luoghi Santi alla vista e alla venerazione di tutti.
Partita da Roma, arrivò prima a Cesarea e da lì raggiunse Gerusalemme dove erano state ritrovate la Tomba di Cristo e, in una cavità poco distante, le tre croci su cui vennero crocifissi Gesù e i cosiddetti due ladroni.
Dalla Croce di Gesù, che aveva rivelato proprietà miracolose, Sant’Elena prese tre frammenti dei quali:
- uno fu portato a Roma nella Basilica di Santa Croce in Gerusalemme, da lei stessa fatta edificare;
- un altro a Costantinopoli, nella Basilica della Sapienza, divenuta successivamente di Santa Sofia;
- un terzo nella stessa Gerusalemme, al Vescovo Macario.
Sant’Elena portò dalla Palestina anche:
- alcune spine della corona che cinse il capo di Cristo, che furono collocate in un reliquiario e custodite nella cripta della Basilica di Santa Croce in Gerusalemme a Roma;
- i tre chiodi che trafissero mani e piedi di Gesù, dei quali uno fu conservato nella stessa cripta di Santa Croce in Gerusalemme, un altro fu inviato a Treviri all’ Arcivescovo Agrizio per custodirlo nella Basilica, ed un altro fu donato alla Chiesa di S. Giovanni a Monza;
- i ventotto gradini del “Praetorium” percorsi da Gesù quando, flagellato e coronato di spine, si presentò da Pilato (la cosiddetta “Scala Santa” che si trova a Roma).

Ciò premesso, ritornando ai Misteri di Molfetta e osservandoli singolarmente, si nota immediatamente che alcune delle reliquie menzionate le ritroviamo riprodotte iconograficamente proprio in essi; solo nel Cristo all’orto non vi è riscontro di ciò.

Nel primo Mistero vediamo infatti Gesù che prega nell’orto del Getsemani (9).
Egli indossa una tunica rossastra con motivi in oro, realizzati con quella tecnica denominata “estofado”; è inginocchiato sotto un alberello di ulivo, realizzato con rami naturali carichi di frutti (10). Un angelo gli tende tra i rami un calice verso cui Gesù, che prega a mani giunte, rivolge uno sguardo tristissimo e pieno di scoramento, al punto che sembra quasi sussurrare le parole che si leggono nel Vangelo di S. Luca: “Padre, se possibile, allontana da me questo calice …”.
Naturalmente quel calice, essendo solo un elemento simbolico che rappresenta l’amara Passione che attende Gesù nelle ore successive, non può avere riscontro in nessuna delle reliquie tramandateci.

Passiamo pertanto al secondo Mistero che vede Gesù legato ad una colonna e flagellato (11).
Gesù è in piedi, con il capo inclinato a sinistra e rivolto leggermente verso l’ alto; è completamente nudo e solo un perizoma gli cinge i fianchi. Ha le mani legate dietro la schiena ad una colonna, più o meno all’altezza del bacino.
Questa colonna (12) è quindi molto più alta rispetto a quella ritenuta originale, denominata appunto Colonna della flagellazione, che si trova a Roma, nella chiesa di Santa Prassede (13), nei pressi della Basilica di Santa Maria Maggiore.
Essa è allocata in una nicchia aperta sia sulla cappella di San Zenone che sulla navata destra, è alta circa 63 centimetri e con un diametro del fusto variabile: alla base misura 40 centimetri, per passare ai 13 centimetri del punto più stretto e ai 20 della sommità.
(14) Particolarmente prezioso e raro è il materiale: granito a grandi grani bianchi, alcuni dei quali quasi rosati, e cristalli neri oblunghi. La colonna fu portata a Roma da Gerusalemme nel 1223 dal cardinale Giovanni Colonna, condottiero della sesta crociata, che la fece collocare nella basilica di cui era titolare, nel sacello di San Zenone, dove rimase fino al 1699, quando monsignor Ciriaco Lancetta, uditore della Rota, la fece spostare nel luogo attuale. La tradizione vuole che si tratti della colonna a cui Gesù fu legato per subire la flagellazione, come si può vedere anche in due affreschi della stessa basilica. Alcuni studiosi, però, pensano che si tratti di un sostegno, forse di un tavolo.
La superficie della colonna presenta varie abrasioni e intagli, causati nel passato per prelevarne frammenti da utilizzare come reliquia. E’ protetta da un reliquiario di bronzo dorato eseguito nel 1898 su disegno di Duilio Cambellotti.
(15) Sulla base di quanto esposto fino ad ora, si può dire che, assumendo per autentica la Colonna di Santa Prassede, la posizione assunta da Gesù legato ad essa, deve essere stata più o meno simile a quella rappresentata nella piccola statua settecentesca (16) in legno, custodita presso la sacrestia della chiesa di S. Domenico in Bitonto, o in una delle pitture (17) che decorano il soffitto della parte absidale della chiesa del Crocifisso o Parrocchia S. Silvestro, sempre a Bitonto.

Il terzo Mistero rappresenta Gesù coronato di spine (18), in quella postura che viene iconograficamente indicata come “Ecce Homo”.
Come nella statua precedente Gesù è rappresentato in piedi, nudo col solo perizoma che gli avvolge i fianchi; ha però un mantello che gli scende dalle spalle sino ai piedi, dal colore simile a quello del Cristo all’orto. Il capo, cinto da una corona di spine, è leggermentente inclinato a destra e lo sguardo, pieno di rassegnazione, sembra rivolto nel vuoto; le mani sono legate sul davanti del corpo e tra le braccia gli è posta una canna.
La corona di spine ci rimanda alle tante “spine” sparse per tutta Europa e ritenute appartenenti a quella che realmente cinse il capo di Gesù, allorquando fu presentato al popolo da Pilato.
Questa era venerata come reliquia a Gerusalemme già nel secolo V, come attestato da S. Paolino da Nola, pellegrino in Terra Santa nel 409 e, insieme ad altre reliquie, venne portata da Gerusalemme a Costantinopoli nel 1063 e qui custodita nella cappella imperiale, sino a quando Costantinopoli venne presa dai Crociati, nel 1204.
La corona di spine venne quindi venduta da re Baldovino II al re (santo) Luigi IX di Francia nel 1237 e portata a Parigi due anni dopo, nel 1239. Qui fu custodita insieme ad altre reliquie nella cappella gotica denominata Saint Chapelle (19), fatta costruire appositamente dal re come gigantesco reliquiario.
Successivamente, Carlo d'Angiò portò con sé in Italia alcune spine della corona.
A questo punto, tra queste, occorre fare menzione di quella che si trova proprio nella nostra Puglia, nella città di Andria, e che viene denominata appunto come “La Sacra Spina di Andria” (20).
Essa fu donata al Capitolo Cattedrale andriese nel 1308 da Beatrice, figlia di Carlo II d'Angiò, contessa di Andria e moglie di Bertrando del Balzo.
La particolare importanza della Sacra Spina di Andria è data dal fatto che, ogni volta che il Venerdì Santo coincide con il 25 di marzo, avviene un particolare prodigio.
A questo proposito lo storico andriese Emanuele Merra nel 1906 così descrive la Sacra Spina: “… è della lunghezza di circa quattro dita, e della grossezza di un grosso filo di spago nel suo basso finimento. Il suo colorito è cenerognolo, ad eccezione della punta semifranta, che va a finire ad ago, ed è di colore sub oscuro. In essa si veggono quattro macchie di color violaceo nella parte di dietro alla curvatura, ed un’ altra parte davanti, oltre a molti punti a stento visibili.
Quando coincide la feria sesta di Parasceve con la festività dell’ Annunciazione di Maria, ai 25 di marzo, allora queste macchie si ravvivano, e rosseggiano di fresco sangue; nel che ordinatamente consiste il miracolo”
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Le macchie di cui parla il Merra sono comunque, ad una più attenta osservazione, in tutto diciassette e di diversa grandezza.
Il 25 marzo, secondo alcuni Padri della Chiesa e la teologia medievale, oltre che dell’Annunciazione, è anche la data della creazione del mondo e della Morte di Gesù Cristo, racchiudendo quindi in essa la completezza e la totalità del mistero della salvezza.
La prima testimonianza scritta del prodigio risale al 25 marzo del 1633; il successivo avviene nel 1644 e, a seguire, negli anni 1701, 1712, 1722, 1785 e 1796.
Accadde poi che nel 1799 l’ esercito repubblicano francese saccheggiò e distrusse la città di Andria, rubando e vendendo all’asta anche il reliquiario contenente la Sacra Spina, che fu comprata da tale Michele Miseo da Spinazzola. Dopo 38 anni di alterne vicende e passaggi di proprietà, la Sacra Spina ritornò ad Andria in custodia del Vescovo Mons. Giuseppe Cosenza, esattamente il 31 ottobre 1837 ed il giorno successivo, in maniera straordinaria, avvenne il prodigio con il ravvivarsi di alcune macchie.
Successivamente l’evento miracoloso si è verificato negli anni 1842, 1853, 1864, 1910, 1921 e 1932.
Dal 1932 ad oggi (dopo quindi 73 anni), il miracolo si è ripetuto il 25 marzo del 2005 nella Cappella di S. Riccardo della bellissima Cattedrale di Andria, dalle ore 20,00 alle ore 23,00 circa, ed è stato così descritto dai medici facenti parte della Commissione incaricata di redigere il Verbale di constatazione dei mutamenti dello stato della Sacra Spina, composto di due pagine scritte e di tre riproducenti nove foto che testimoniano le varie fasi:
“Ore 20,00: Sulla punta della Spina un piccolo rigonfiamento di colore rosso rubino.
Ore 20,05: Scomparsa del colore rosso.
Ore 20,20: Sulla punta della Spina il rigonfiamento (bozzo) sempre più grosso. Colore sempre rosso vivo rubino.
Ore 21,05: Ricompare la gemma e sul corpo della Spina verso la punta presenza di piccole granulazioni biancastro-lanuginose.
Ore 21,15: persiste la granulazione biancastra lanuginosa e scomparsa della gemma alla punta.”

La commissione speciale che ha valutato l’evento prodigioso era presieduta dal vicario, don Antonio Tucci, e comprendeva oltre ai canonici della cattedrale e ad altri sacerdoti, religiosi, medici, un notaio, esponenti dell'associazionismo e giornalisti. La commissione si è riunita più volte ed ha anche esaminato la Sacra Spina prima del 25 marzo, per attestare, con una ricognizione, lo stato delle macchie.
Il miracolo, se il Signore lo vorrà, si ripeterà il 25 marzo del 2016 e successivamente il 25 marzo del 2157, ma dubito fortemente che qualcuno dei presenti, pur volendolo, potrà assistervi di persona.
Personalmente ho avuto modo di vedere più volte la Sacra Spina, sia nella sua sede naturale di Andria, che a Molfetta.
Qui la Sacra Spina è stata ospitata nella Chiesa del Purgatorio dall’ Arciconfraternita della Morte, della quale ero a quel tempo Priore, nei gioni 19 e 20 gennaio 2008; dal 18 al 22 marzo 2011 è stata presente invece nella Parrocchia S. Pio X (21).
Posso assicurare che quando ci si trova di fronte a questa reliquia, si vive sempre una grande emozione, cosa che già da sola conferma che veramente quella “Spina” è stata sul capo di Cristo.

Il quarto Mistero è rappresentato da Gesù che porta la croce verso il Calvario (22).
In questa statua vediamo un Gesù caricato di una grande croce di colore nero, portata insolitamente sulla spalla sinistra, anziché sulla destra.
Il Cristo, rivestito di una lunga tunica fino ai piedi, dai colori simili a quella del Cristo all’orto e al mantello del Cristo alla canna, è in posizione eretta ma leggermente inclinata in avanti per il peso della croce, nell’atto di procedere verso il luogo della crocifissione.
Soprattutto quando la processione attraversa al buio le strette vie del centro storico (23), illuminate solo dalla luce delle candele dei confratelli, tra due fitte ali di popolo, pare quasi essere idealmente trasportati tra le vie di Gerusalemme e di assistere al passaggio di Gesù che arranca verso il Calvario. Il dondolio dei portatori sulla strada sconnessa conferisce inoltre al Cristo, carico della croce, un movimento barcollante dallo straordinario realismo.
Una volta uscita dal centro storico, affacciandosi su via Dante, la processione passa davanti al portone spalancato della chiesa del Purgatorio.
(24) Nel momento in cui il Cristo con la croce sulle spalle passa lentamente davanti a quel portone, all’interno del quale si intravedono nel cosiddetto Sepolcro le statue di Maria di Cleofe, Maria Salomè e Maria Maddalena, pare veramente di assistere all’incontro di Gesù con le Pie Donne; osservando in quel momento l’espressione del Cristo, sembra quasi che voglia dir loro: “Figlie di Gerusalemme, non piangete su di me, ma piangete su voi stesse e sui vostri figli”.
Elemento dominante di questo Mistero è quindi la Croce che ci rimanda alle tante reliquie in circolazione di quello che viene definito di solito il Legno Santo (25).
È probabile che molti dei pezzi esistenti della Croce siano delle contraffazioni, create dai mercanti viaggiatori durante il Medioevo, periodo in cui esisteva un grande commercio di reliquie e manufatti.
Inoltre bisogna considerare che, mentre oggi abbiamo un concetto di reliquia che sottintende il concetto di originalità, nel medioevo non era così: venivano considerate reliquie anche gli oggetti simili che entravano in contatto con reliquie considerate autentiche.
Entrambi i fattori hanno concorso a far sì che ci siano reliquie della Croce in molti luoghi.
Tuttavia nel 1870 Rohault de Fleury, nel suo libro “Memorie sugli strumenti della Passione”, stese un catalogo di tutte le reliquie conosciute della Croce, dimostrando che, al contrario di quanto affermato da altri autori, i frammenti della Croce, raccolti insieme, ammontano al volume di soli 0,004 metri cubi. Questi, assegnandole un peso di circa settantacinque chilogrammi, calcolò il volume originale della croce in 0,178 metri cubi. Resta quindi un volume di 0,174 metri cubi di legno ancora dispersi, distrutti o non conteggiati. In effetti non abbiamo informazioni credibili sulla struttura della croce, che di solito non era in un pezzo unico, ma costituita da un palo (fisso) e da un'asse (mobile); quindi il volume stimato da Rohault potrebbe essere errato. Questa incertezza deriva dal fatto che abbiamo un'idea insufficiente sulle dimensioni e volume degli strumenti per la crocefissione in epoca romana. In ogni caso 0,004 metri cubi, pari a un cubo di circa 16 centimetri di lato, oppure a un palo lungo un metro e del diametro di soli 7 cm circa, sono certamente molto meno del volume che la croce poteva avere.
La quantità di legno della croce presente nell'antichità impressionava comunque anche i credenti e coloro che credevano all'autenticità della reliquia, e se ne davano diverse spiegazioni.
Alcuni dei frammenti oggi conservati potrebbero appartenere alla croce ritrovata da Sant’Elena nel 326 e, a sostegno di tale ipotesi, vi è un dato di fatto che fa riflettere; quattro schegge della Croce, di dieci frammenti con prove documentate degli Imperatori Bizantini, provenienti da chiese Europee (Santa Croce in Gerusalemme a Roma, Notre Dame de Paris, il Duomo di Pisa e Santa Maria del Fiore a Firenze), sono stati analizzati al microscopio e si è scoperto che i pezzi provengono tutti da legno di olivo, come ha scritto nel 1997 lo storico tedesco William Ziehr.
Ciò è in tutto compatibile col fatto che intorno a Gerusalemme era proprio l’albero di olivo ad essere maggiormente presente e quindi più disponibile all’ occorrenza.
Nella mia città di Molfetta vi sono ben quattro frammenti di questa reliquia. Uno appartiene all’Arciconfraternita di S. Stefano ed è collocato in un reliquiario in argento (26), realizzato su progetto del grande maestro molfettese Giulio Cozzoli, che viene posto in processione ai piedi di Cristo Morto.
Gli altri tre appartengono tutti all’Arciconfraternita della Morte e sono riposti in altrettanti diversi reliquiarii.
Di questi uno (27) si trova ai piedi della Pietà, nella teca che contiene le statue che vengono portate in processione il Sabato Santo, un altro (28) viene utilizzato per impartire la benedizione al termine di tutte le funzioni quaresimali ed un terzo (29), di forma quasi circolare, è collocato all’ incrocio dei bracci della croce, sotto la quale siede col Figlio giacente in grembo, la Madonna detta della Pietà.

Il quinto ed ultimo Mistero ci mostra Gesù Morto (30).
Di grande commozione è il momento in cui, alle 4,00 del mattino del Venerdì Santo, spuntano dal piccolo portone della chiesa di S. Stefano i piedi di Cristo Morto, disteso su una bara rivestita da una coltre azzurra intessuta di oro (31) su cui sono ricamate, sempre in oro, 118 stelle, i simboli della Passione e lo stemma dell’Arciconfraterniuta di S. Stefano.
Il corpo piagato del Cristo, il cui volto è espressione di una grande serenità, è disteso su una specie di lenzuolo che riporta immediatamente allInserisci linka mente quello in cui fu avvolto nel Sepolcro, dopo la discesa dalla croce.
A questo punto è ormai inevitabile parlare di quella che è, tra tutte le “Reliquie della Passione”, la più conosciuta, la più studiata, la più controversa e, per i credenti, la più venerata: la Sacra Sindone (32).
La Sindone (che in greco significa appunto “lenzuolo”), attualmente è conservata a Torino ed appartiene alla Santa Sede a cui è stata donata da Umberto II di Savoia, ultimo re d'Italia, alla sua scomparsa nel 1983.
Secondo la tradizione è il lenzuolo nel quale è stato avvolto il corpo di Gesù nel Sepolcro. Il tessuto è di lino e misura 442 per 113 centimetri.
Presenta la doppia immagInserisci linkine (frontale e dorsale) di un uomo con barba, baffi e capelli lunghi, recante sul corpo i segni corrispondenti alla descrizione della passione: flagellazione, coronazione di spine, mani e piedi trapassati da chiodi, ferita di lancia nel costato. L'immagine (33) non è dipinta ma deriva da un graduale ingiallimento della fibra tessile, come se si trattasse dell'impressione negativa di una pellicola fotografica. In corrispondenza delle ferite più profonde sono presenti tracce di sangue di tipo AB.
La Chiesa non si è mai ufficialmente pronunciata circa l'autenticità della Sindone ma ne permette comunque la venerazione.
In epoca contemporanea è stata oggetto di numerosissimi studi scientifici. Ha destato grande eco l'esame del carbonio 14 realizzato nel 1988, secondo il quale andrebbe datata, con certezza al 95%, tra il 1260 e 1390 e si tratterebbe quindi di un falso medievale. Da parte dei sostenitori dell'autenticità della Sindone viene però fatto notare come il reperto sia stato sicuramente contaminato in vario modo lungo i secoli (funghi, batteri, manipolazione non protetta, incendio, fu anche bollita nell'olio), lasciando ipotizzare una possibile alterazione del risultato dell'esame, e viene notato anche che se si trattasse di un falso medievale non è comunque chiaro il metodo usato dal falsario per “impressionare” il tessuto.
A tutt’oggi le prime testimonianze documentarie sicure ed inconfutabili relative alla Sindone di Torino datano alla metà del XIV secolo, quando Geoffroy de Charny, valoroso cavaliere e uomo di profonda fede, depose il Lenzuolo nella chiesa da lui fondata nel 1353 nel suo feudo di Lirey in Francia, non lontano da Troyes.
Nel corso della prima metà del ‘400, a causa dell’acuirsi della Guerra dei cent’anni, Marguerite de Charny ritirò la Sindone dalla chiesa di Lirey (1418) e la portò con sé nel suo peregrinare attraverso l’Europa. Finalmente ella trovò accoglienza presso la corte dei duchi di Savoia, alla quale erano stati legati sia suo padre, sia il secondo marito, Umbert de La Roche. Fu in quella situazione che avvenne, nel 1453, il trasferimento della Sindone ai Savoia, nell’ambito di una serie di atti giuridici intercorsi tra il duca Ludovico e Marguerite.
A partire dal 1471, Amedeo IX il Beato, figlio di Ludovico, incominciò ad abbellire e ingrandire la cappella del castello di Chambéry, capitale del Ducato, in previsione di una futura sistemazione della Sindone.
Dopo una iniziale collocazione nella chiesa dei francescani, la Sindone venne definitivamente riposta nella Sainte-Chapelle du Saint-Suaire. In questo contesto i Savoia richiesero e ottennero nel 1506 dal Papa Giulio II il riconoscimento di una festa liturgica propria, per la quale fu scelto il 4 maggio. II 4 dicembre 1532 un incendio devastò la Sainte-Chapelle e causò al Lenzuolo notevoli danni che furono riparati nel 1534 dalle Suore Clarisse della città.
Emanuele Filiberto trasferì definitivamente la Sindone a Torino nel 1578. Il Lenzuolo giunse in città il 14 settembre di quell’anno, tra le salve dei cannoni, in un'atmosfera di grande solennità.
La Sindone restò, da quel momento, definitivamente a Torino dove, nei secoli seguenti, fu oggetto di numerose ostensioni pubbliche e private, l’ ultima delle quali è avvenuta dal 10 aprile al 23 maggio 2010.
Parlando della Sindone, e a motivo di alcune analogie con essa, pur non comparendo nella sacra immagine di Cristo Morto che abbiamo appena considerato, bisogna fare riferimento ad un’ultima reliquia: il Volto Santo che si conserva nell’omonimo Santuario di Manoppello (34), in provincia di Pescara.
E’ un velo tenue che ritrae l'immagine di un volto, un viso maschile con i capelli lunghi e la barba divisa a bande, ritenuto essere quello di Cristo (35). Secondo Chiara Vigo il velo è di bisso marino.
L'immagine ritratta (36), secondo la tradizione, è "acheropita", cioè un'immagine che sarebbe "non disegnata o dipinta da mano umana", ed ha una caratteristica unica al mondo: essere visibile nella stessa maniera da entrambe le parti.
Questa reliquia ha origini ignote e giunse a Manoppello nel 1506 per mezzo di un pellegrino che scomparve senza lasciare traccia, subito dopo aver consegnato il Velo al fisico Giacomo Antonio Leonelli.
Il 1º settembre 2006, papa Benedetto XVI si è recato in visita privata a Manoppello, facendo visita al santuario per venerare l'immagine, senza peraltro pronunciarsi sul fatto che il Volto possa essere o meno una immagine “acheropita” e che possa essere identificato con il velo della Veronica.
Per contro, il gesuita Heinrich Pfeiffer, docente di Iconologia e Storia dell'Arte Cristiana alla Pontificia Università Gregoriana, dopo 13 anni di studi è convinto si tratti del velo della Veronica, la donna che, secondo la Tradizione cattolica, asciugò il volto di Cristo sulla via del Calvario: a questo proposito, fa notare che sul margine inferiore del Velo di Manoppello si può ancora vedere un frammento di cristallo. Il velo della Veronica era infatti esposto nell'antica basilica di S. Pietro in Vaticano già nell'Anno Santo del 1300 e si trovava in una cappella, abbattuta nel 1608, circostanza in cui fu rubata rompendo il vetro del reliquiario.
Inoltre, padre Pfeiffer ha indagato sistematicamente le opere artistiche che ritraggono il volto di Gesù secondo il Velo prima del divieto in tal senso imposto da papa Paolo V nel 1616: in questo modo ha scoperto che diversi dettagli (il taglio dei capelli, le tracce di sangue, la conformazione del viso, le caratteristiche della barba) sono tutti riscontrabili nel volto che si trova a Manoppello.
Tale ipotesi contrasta però con le testimonianze che vogliono il tessuto a Manoppello già nel 1506 quando il furto del velo della Veronica è del 1608.
Secondo il professor Donato Vittori dell'Università di Bari, che ha eseguito nel 1997 un esame con i raggi ultravioletti, da questa prova risulta che le fibre del Velo non presentano nessun tipo di colore, il che collima con le osservazioni microscopiche (le quali affermano che questa reliquia non è né dipinta né tessuta con fibre colorate). Con elaborate tecniche fotografiche di ingrandimento digitale è possibile constatare come l’immagine sia identica in entrambi i lati del velo.
Il sacerdote Enrico Sammarco e suor Blandina Paschalis Schlömer hanno effettuato alcune indagini sul telo dalle quali emergerebbe che le dimensioni del volto presente sulla Sindone di Torino sono le stesse del Volto Santo di Manoppello. Risulterebbe inoltre che il volto della Sindone di Torino e quello che appare nel Velo di Manoppello sono sovrapponibili (37), con l'unica differenza che nella reliquia di Manoppello la bocca e gli occhi del viso sono aperti.

Ciò detto, termino qui la mia esposizione, ricordando a tutti che, al di là della valenza artistica dei cinque Misteri del Venerdì Santo di Molfetta e di quello che le “Reliquie della Passione” possono trasmettere al credente o suscitare nell’agnostico, vi è una reliquia, nel senso letterale del termine, ben più importante che Gesù ci ha lasciato la sera del Giovedì Santo di 2.000 anni fa e che è l’ Eucarestia (38), che rappresenta comunque ben più di una reliquia, in quanto, non rappresenta Gesù, ma è Gesù stesso.
Se non credessimo al valore della Eucarestia, segno reale e tangibile della Resurrezione, tutte le sacre immagini e le presunte reliquie di cui abbiamo parlato, non rappresenterebbero altro che il nulla.

dott. Francesco Stanzione